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In una riflessione pubblicata sui social media, il cubano Sandy Hechavarría Gutiérrez sostiene che la tragedia più profonda di Cuba non è economica né migratoria, ma l'accettazione quotidiana dell'umiliazione, della menzogna e dell'ubbidienza come norme di vita.
Il testo, scritto dall'esperienza personale di un cittadino nell'isola, non si presenta come una consigna politica né come un'analisi accademica distante, ma come una riflessione interna sullo stato attuale del paese e sugli effetti accumulati di decenni di potere totalitario sulla vita quotidiana, la morale pubblica e la coscienza individuale.
Hechavarría afferma che ciò che vive Cuba non può essere ridotto a una crisi congiunturale. A suo avviso, si tratta di una decomposizione morale strutturale, dove non è collassato solo un modello economico, ma anche l'architettura etica che sostiene una società civilizzata.
In questo senso, rifiuta l'idea di un "fallimento del sistema" e sostiene che questo ha raggiunto il suo obiettivo essenziale: sottomettere il cittadino, non emanciparlo.
Secondo la sua riflessione, il potere non cercò di elevare l'individuo, ma di domesticarlo. La coscienza fu sostituita da slogan, l'etica da lealtà politica e la dignità da obbedienza funzionale.
Il paese che emerge da quel processo non sarebbe una deviazione dal progetto originale, ma il suo risultato logico.
L'autore sostiene che il totalitarismo cubano non si sia mantenuto solo attraverso la repressione visibile, ma anche tramite un'ingegneria silenziosa della soggettività.
La colonizzazione fu anche del pensiero e del comportamento, trasformando la società in un laboratorio dove si riorganizzò progressivamente la coscienza individuale.
Da quel punto di vista, il sistema educativo ha smesso di formare un criterio per allenare i riflessi, di insegnare a pensare per richiedere ripetizione. La classe si è trasformata in uno spazio di controllo dove la paura di dissentire ha sostituito la formazione morale.
La corruzione, afferma, non è un'anomalia, ma il sistema circolatorio del modello. La scarsità non è stata accidentale, ma progettata come strumento di dominio, e la miseria, lontana dall'essere una conseguenza indesiderata, ha funzionato come tecnologia politica.
Il cittadino che ruba per sopravvivere non sarebbe un delinquenti isolato, ma il prodotto di una struttura che lo spinge alla degradazione.
In nella sua riflessione, la storia appare anche come vittima del potere: sequestrata, riscritta e utilizzata come strumento di sottomissione. L'impoverimento non è stato solo materiale, ma anche memoriale, mutilando la capacità del paese di comprendere se stesso.
Il risultato, descrive Hechavarría, è un soggetto frammentato, costretto a vivere in un teatro permanente, dove deve dire ciò che non pensa, applaudire ciò che disprezza e tacere ciò che lo consuma dall'interno.
Quel disimpegno non sarebbe codardia individuale, ma una strategia di sopravvivenza imposta dalla violenza strutturale.
Gli applausi di fronte ai dirigenti incompetenti, sottolinea, non esprimono fede politica, ma paura e calcolo. Sono gesti di autoprotezione in un contesto in cui la verità ha un prezzo.
Per questo, conclude, la maggiore tragedia di Cuba non è la povertà né l'esilio di massa, ma la normalizzazione della degradazione umana. Un popolo che impara a vivere senza verità, senza fiducia e senza dignità vive in uno stato di mutilazione spirituale.
A suo avviso, non esiste una soluzione tecnica per una crisi morale. Nessuna riforma economica può guarire una nazione eticamente devastata.
L'unica possibilità reale passa per una rottura interiore: nominare il danno, smontare la menzogna e riacquistare il diritto di pensare senza permesso.
In un regime fondato sulla falsità, sostiene, ogni verità è, per natura, un atto di ribellione morale.
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