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La recente visita di Miguel Díaz-Canel in Vietnam, Cina e Laos, presentata ufficialmente come uno sforzo per attrarre investimenti esteri, ha suscitato la reazione indignata della giornalista cubana Mónica Baró Sánchez, che ha denunciato la contraddizione di un governante che percorre migliaia di chilometri per offrire l'isola a imprenditori stranieri mentre continua a chiudere la porta ai propri cittadini.
Nel suo messaggio, Baró ha espresso rammarico per il fatto che “tanto sangue versato nelle guerre per l'indipendenza a Cuba affinché un secolo più tardi qualsiasi straniero valga più di un cubano, per decisione di Fidel Castro, e affinché ancora oggi qualsiasi straniero continui ad avere più diritti a Cuba di quanto ne abbiamo noi”.
Le sue parole hanno riflettuto un sentimento condiviso da ampi settori della diaspora, che sono riusciti a prosperare in vari paesi, ma non trovano condizioni legali per investire nemmeno in piccole attività nel loro paese d'origine.
Il contrasto è evidente. A Pechino, Díaz-Canel ha incontrato circa 70 imprenditori cinesi, ai quali ha assicurato che “Cuba è aperta a tutte le proposte”. Nella sua agenda ha incluso accordi nel settore biotecnologico, con imprese congiunte che già distribuiscono farmaci cubani in oltre 2.000 ospedali in Cina.
Ha cercato anche impegni finanziari in Vietnam, un paese che ha organizzato una raccolta di 14 milioni di dollari da destinare al regime cubano. In Laos, il governante cubano ha firmato memorandum di cooperazione politica ed economica.
Tuttavia, mentre chiede investimenti in Asia, a Cuba continua a essere in vigore un quadro legale che proibisce ai cittadini residenti sull'isola o in esilio di partecipare a progetti produttivi di grande portata.
L'accesso alle licenze è limitato a piccoli mestieri autonomi, mentre la partecipazione in settori strategici —energia, telecomunicazioni, banca, commercio estero o turismo— resta riservata a imprese straniere o militari, escludendo il capitale umano e finanziario cubano.
Per i critici come Baró, questa politica costituisce un'estensione della logica instaurata da Castro dal 1959: un'azienda nazionale gestita come proprietà privata del regime, che decide chi ha accesso alle opportunità economiche e chi rimane escluso.
“Ci sono cubani con voglia di intraprendere e investire nel proprio paese”, ha denunciato la giornalista, ma il governo preferisce “fare la tortina a 70 cinesi piuttosto che permettere ai cubani di avere diritti sulla propria terra”.
Il contesto storico accentua la paradosso: dopo 66 anni di dittatura, i cubani assistono alla cessione delle ricchezze nazionali a autocrazie alleate, mentre loro continuano a non avere il diritto di decidere né di investire nel paese per il quale tanti hanno dato la vita.
Il viaggio di Díaz-Canel ha cercato di mostrare apertura, ma solo verso l'esterno. All'interno, Cuba rimane chiusa ai propri figli.
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