La Cuba “reale” e la “virtuale”: Il tentativo fallito di Díaz-Canel di silenziare l'attivismo digitale e i media indipendenti

Il regime cubano intensifica la sua repressione contro l'attivismo digitale e i media indipendenti, cercando di screditare le critiche come parte di una "guerra mediatica". I social media mettono in luce la realtà del paese, mentre il governo cerca di controllare la narrazione e criminalizzare la dissidenza.


In mezzo alla crisi strutturale che attraversa Cuba, il regime intensifica nuovamente la sua offensiva contro l'attivismo digitale e i media indipendenti, con una narrazione che mira a delegittimare ogni critica sui social media presentandola come parte di una “guerra mediatica” orchestrata da nemici esterni.

In un recente discorso, il governante Miguel Díaz-Canel ha affermato che esistono “due Cuba”: una “reale”, che secondo lui resiste con creatività, e un'altra “virtuale”, dominata dall'odio, dalla manipolazione e dalle notizie false.

“Stiamo affrontando una campagna mediatica di discredito della rivoluzione, di odio, di calunnia, di menzogna, di assassinio di reputazioni”, ha dichiarato Díaz-Canel durante il IV Colloquio Patria, tenutosi il 19 marzo all'Università dell'Avana.

“Esiste una Cuba che è quella che voi vedete qui... E ce n'è un'altra, che è quella che si trova sui social media,” ha aggiunto, nel tentativo di screditare le molteplici denunce che circolano nell'ecosistema digitale riguardo alla grave situazione che vive l'isola.

Il discorso non è nuovo, ma rivela il crescente timore dell'apparato politico cubano di fronte a una frattura informativa che non può più controllare. I social network hanno trasformato il panorama comunicativo del paese, consentendo a migliaia di cittadini di mostrare in tempo reale la scarsità di generi alimentari, le code interminabili, i blackout, il collasso del sistema sanitario e gli abusi di potere.

Di fronte a ciò, il regime ha scelto di costruire una narrazione dicotomica che contrappone la presunta “Cuba eroica” e rivoluzionaria a una “Cuba virtuale” manipolata da interessi stranieri.

Tuttavia, questo racconto nasconde deliberatamente che dietro ogni pubblicazione critica sui social media ci sono cubani reali: attivisti, giornalisti, madri, pensionati, lavoratori e giovani che documentano con i loro telefoni ciò che la stampa ufficiale tace.

Ciò che il regime chiama "campagna d'odio" non è altro che l'esercizio del diritto alla libertà di espressione, in un paese dove manifestare pacificamente o semplicemente condividere un'opinione scomoda può costare la prigione.

Negli ultimi anni, il regime cubano ha messo in atto una serie di misure legali, tecnologiche e mediatiche per frenare il flusso di informazioni critiche su internet.

La approvazione del nuovo Codice Penale nel 2022 ha introdotto figure delittuose ambigue e pericolosamente ampie per criminalizzare l'attivismo digitale. Tra queste, i reati contro la “sicurezza dello Stato” o la “diffusione di notizie false”, che consentono di sanzionare gli utenti per pubblicazioni sui social senza necessità di prove concrete.

Inoltre, normative come il Decreto-Ley 370, noto come “Legge Museruola”, sono state utilizzate per multare e perseguitare giornalisti indipendenti come Camila Acosta, punita per aver espresso opinioni contrarie al governo su Facebook.

La recentemente approvata Legge sulla Comunicazione Sociale rafforza inoltre il controllo statale sui contenuti digitali, stabilendo un quadro giuridico che protegge la narrativa ufficiale ed esclude qualsiasi voce dissenziente.

Il regime non si limita ad agire attraverso la legalità repressiva, ma utilizza anche i mezzi statali per disinformare, manipolare e stigmatizzare.

En programmi della televisione cubana si sono richiesti pubblicamente “punizioni esemplari” per coloro che “calunniamo la rivoluzione” sui social. Giornalisti ufficialisti come Rosa Miriam Elizalde sono arrivati a definire “timbirichi mediatici” i media indipendenti, accusandoli di lucrare sul dolore altrui e di diffondere “bugie finanziate dall'estero”.

La retorica del potere insiste nel presentare i mezzi digitali e le piattaforme sociali come spazi contaminati dalla CIA, dalla “contro-rivoluzione” e la macchina di destabilizzazione dell'“impero”.

Questa visione paranoica riduce il legittimo malcontento popolare a un semplice strumento di guerra ideologica, e cerca di negare o giustificare che il collasso economico, l'esodo di massa e la disperazione generalizzata siano il prodotto del sistema stesso.

In parallelo, il regime promuove un'immagine idealizzata della “Cuba reale”: una nazione bloccata ma dignitosa, povera ma solidale, con un governo che “lavora sodo” per risolvere i problemi e un popolo che “resiste con creatività”.

Si tratta di un'operazione simbolica che tenta di rafforzare la narrativa dell'eroismo nazionale, attingendo a una presunta emotività "rivoluzionaria" che si connette sempre meno con la realtà quotidiana.

L'obiettivo è chiaro: affrontare l'aumento del pensiero critico, dell'organizzazione dei cittadini e della visibilità internazionale che i cubani hanno ottenuto grazie a Internet.

Dal momento delle proteste dell'11 luglio, il governo ha capito che il racconto gli stava sfuggendo di mano. Per questo ha raddoppiato il suo discorso di vittimizzazione, ha criminalizzato l'attivismo digitale e ha cercato di controllare fino all'ultimo meme che circola in rete.

Pero la verità è che quella “Cuba virtuale” che tanto teme il regime non è una costruzione artificiale né una distorsione imposta dall'esterno. È, piuttosto, il riflesso spoglio di un paese senza libertà, dove migliaia di cittadini cercano di rompere il cerchio informativo e di esercitare il loro diritto a raccontarsi.

I social network non sono nemiche di Cuba. Sono strumenti di empowerment dei cittadini in una nazione dove lo Stato controlla quasi tutto. Sono spazi in cui i cubani possono denunciare, condividere, dibattere, organizzarsi. Sono, in definitiva, una finestra su una Cuba che è altrettanto reale, anche se il potere totalitario cerca di negarla.

Negare quella realtà, perseguitarla o cercare di silenziarla evidenzia solo il vero timore del regime: perdere il controllo sulla narrativa e, di conseguenza, sulla modalità di imporre la sua “verità”.

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Iván León

Laureato in giornalismo. Master in Diplomazia e Relazioni Internazionali presso la Scuola Diplomatica di Madrid. Master in Relazioni Internazionali e Integrazione Europea presso l'UAB.