In un ampio discorso che ha alternato toni epici, storici e difensivi, Miguel Díaz-Canel ha ammesso questo sabato che la comunicazione istituzionale del governo cubano rimane una “questione irrisolta”, in mezzo a una profonda crisi economica, sociale ed energetica che ha deteriorato gravemente la qualità della vita della maggior parte dei cubani.
Durante la clausura del X Pleno del Comité Central del Partito Comunista di Cuba (PCC), il mandatario ha riconosciuto che il modo in cui si informa, si argomenta e si cerca di convincere dalle istituzioni dello Stato non riesce a connettersi con i cittadini, specialmente con i giovani.
Tuttavia, l'autocritica è arrivata accompagnata dalla consueta retorica sul blocco, la guerra mediatica e la "resistenza eroica" come giustificazione quasi assoluta di tutti i mali.
“Qui gioca un ruolo determinante la tanto discussa comunicazione politica, istituzionale, sociale, un compito arretrato che richiede maggiore qualità, articolazione, incisività, chiarezza, coerenza e modi più attraenti”, ha affermato, senza precisare responsabili né indicare le strutture statali che per anni hanno ignorato le richieste dei cittadini per trasparenza, efficacia e dialogo reale.
Díaz-Canel ha chiesto di avvicinarsi di più ai giovani, ma lo ha fatto con un approccio carico di slogan, appellandosi alla storia come strumento pedagogico. Ha proposto, ad esempio, che nelle scuole vengano scritte frasi martiane sulle lavagne e che si leggano articoli di Martí come antidoto contro la dismobilitazione.
La domanda scomoda è: il governo crede che con le frasi di Martí o il lascito di Fidel possa ricostruire la fiducia perduta in una generazione che cresce tra blackout, scarsità, censura e mancanza di orizzonti? Si ascolta davvero questa gioventù quando protesta, quando emigra, quando pone interrogativi?
Uno dei passaggi più significativi del discorso è stata l'affermazione che “Cuba è un paese in guerra”, non solo a causa dell'embargo economico, ma anche per quelle che ha definito “bombe di disinformazione” lanciate da media stranieri e social network.
Il mandatario ha riconosciuto anche che si sono accumulati "problemi e comportamenti inammissibili" e che molte politiche vengono attuate con deformazioni. Tuttavia, non è stato nominato alcun funzionario, organismo o responsabile diretto, né è stata assunta la quota di colpa da parte di coloro che governano il paese da decenni.
Non si è parlato neanche dei limiti del modello centralizzato, né della mancanza di libertà civili, né dell'assenza di meccanismi reali di controllo da parte dei cittadini. La "partecipazione popolare" rimane un concetto astratto in un paese dove la stampa indipendente è perseguitata, la critica scomoda è criminalizzata e le decisioni chiave vengono prese in circoli ristretti.
In mezzo al deterioramento economico, il discorso ha incluso anche promesse reiterate: rilanciare l'economia, liberare le zavorre burocratiche, stabilizzare il sistema elettrico, produrre più cibo, promuovere gli investimenti stranieri. Nulla che i cubani non abbiano già sentito in altre assemblee, discorsi o piani falliti.
D'altra parte, è stato annunciato un programma commemorativo per il centenario di Fidel Castro, con l'obiettivo di “proiettare il suo pensiero di fronte alle sfide attuali”. Una decisione che, lontana dall'orientarsi verso il futuro, torna a ricorrere alla nostalgia come strumento di legittimazione.
Il governante ha concluso parlando di “resistenza intelligente” e di “non arrendersi”, come se l’usura non fosse già insopportabile per una popolazione esausta. In un paese dove migliaia di persone emigrano ogni mese, la speranza non si costruisce con ulteriori slogan né con promesse rimandate.
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